sabato 14 febbraio 2015

Una gita in Giappone

Come promesso ecco il resoconto dal punto di vista orchidofilo, di una recente gita in Giappone.
La coltivazione delle orchidee a scopo ornamentale ha origini molto antiche in Giappone. Il suo clima unisce alcune caratteristiche tipiche del sud est asiatico come le piogge abbondanti e gli alti valori di umidità, a una netta divisione delle stagioni, simili alle nostre. Questo ha permesso lo sviluppo di una grande varietà di orchidee autoctone, non solo terrestri ma, pur non avendo il Giappone un clima propriamente tropicale (se non nell'arcipelago di Okinawa), anche di vere e proprie epifite, molte delle quali, a differenza delle loro cugine originarie dei climi caldi, possono resistere a inverni relativamente freddi. Neofinetia falcata, dendrobium moniliforme, sedirea japonica, sarcochilus japonicus, sono alcune versioni nipponiche di varietà di orchidee molto imparentate con quelle che si trovano dai nostri fiorai come phalaenopsis, dendrobium o vanda. Esse hanno le piccole dimensioni tipiche degli organismi che si sviluppano in ecosistemi chiusi e relativamente piccoli come le isole, ma offrono proporzioni graziose e fioriture eleganti.
Nelle antiche stampe giapponesi si ritrovano illustrazioni di queste orchidee coltivate in vaso fin dal 1500-1600.
Non mancano poi anche numerose speci autoctone di orchidee terrestri molto decorative. Ad esempio la bletilla striata, fiore comunissimo in Giappone anche in parchi e aiuole, il pleione, l'habenaria radiata, calathe discolor, cypripedium japonicum.
Non stupisce quindi che nei centri giardinaggio, oltre agli immancabili bonsai e accessori relativi, si trovino spesso in vendita anche queste orchidee e i vasi, i terreni, i fertilizzanti specifici.
Gli esploratori e i naturalisti del 1700 e 1800 si avventuravano in territori inesplorati (dagli occidentali) alla ricerca di nuove speci da studiare e campionare, io invece per ora mi sono accontentato di avventurarmi in un garden center della periferia di Osaka alla ricerca di qualche esemplare originale.

Questo è stato il primo acquisto. Non un esemplare raro di orchidea ma il mitico fertilizzante Hyponex. Dico mitico perché lo si trova citato in moltissimi testi e post relativi alla preparazione di substrati casalinghi per la germinazione dei semi di orchidee e in Italia a quanto pare non è commercializzato. Hyponex è la marca di fertilizzanti che va per la maggiore in Giappone, ce ne sono ovviamente di ogni genere e tipo, in polvere, liquidi, per questa o quella pianta. Io alla fine ho presa una confezione specifica per orchidee con NPK 6-6-6, vitamine e, stando a quanto riportato sull'etichetta (se non leggete il giapponese vi dovete fidare), di un composto a base di zuccheri di derivazione naturale che mi fa andare la mente a un mio esperimento di qualche tempo fa, oltre al fatto che nel gel di germinazione normalmente si mette una certa quantità di saccarosio.

Queste invece sono le orchidee vere e proprie. Data la stagione, la maggior parte delle varietà in vendita erano bulbose pronte ad essere messe a dimora.
Qui abbiamo due tipi di pleione, uno giallo e uno rosa, una bletilla striata rosa pallido, e un'habenaria radiata che in giapponese è chiamata 鷺草 (sagiso), ossia erba-airone, per la peculiare forma dei fiori che ricordano le ali e il becco di un bianco airone.
Rimanendo al tema di questo blog, in fondo anche l'acquisto è in un certo senso un metodo di propagazione asimbiotica. Permette di aumentare il numero di esemplari e di estenderne il loro areale anche a svariate migliaia di chilometri di distanza dalla pianta madre. Per le orchidee, una strategia evolutiva decisamente vincente...

All'interno delle confezioni i bulbi, uno o due a seconda della varietà, sono contenuti in un vasetto di plastica avvolti nello sfagno umido.
Per la messa a dimora ho seguito le indicazioni di un libro molto dettagliato sulla coltivazione delle orchidee autoctone giapponesi che già in passato mi aveva fornito alcuni informazioni e spunti interessanti. Come base del substrato per quasi tutte le terricole giapponesi si trova spesso il terreno akadama, letteralmente "palline rosse", una specie di tufo color terra di siena in forma di piccole palline di varie dimensioni. E' spesso utilizzato anche nella coltivazione dei bonsai perché ha la caratteristica di assorbire l'acqua e rilasciarla progressivamente senza che il liquido resti a contatto con le radici, cosa che potrebbe causare marcizioni. In più, essendo di origine vulcanica, contiene un gran quantitativo di minerali utili allo sviluppo della pianta. Insomma un terreno ideale, da mischiare, a seconda delle varietà, con perlite, lapillo vulcanico, torba di sfagno, sabbia, etc.
Il problema è che in Italia l'akadama ha prezzi completamente assurdi. Per un sacchetto da 10 chili si può arrivare a pagare 20-30 euro. E qui sorge spontanea una riflessione. Perché nel garden center giapponese dove ho fatto acquisti, ovviamente c'era anche l'akadama. E il prezzo per un sacchetto da 10 o forse anche 20 chili era di poco più di 300 yen, che al cambio attuale fanno poco più di 2 euro. Insomma, l'akadama in Giappone è del comunissimo e banalissimo terreno per le piante che costa anche meno del compost da geranei nostrano.
Anche considerando i costi di trasporto dal lontano Sol Levante e lo smercio che, per quanto anche da noi ci siano gli appassionati di bonsai, resta sicuramente ridotto, appare difficile giustifcare un ricarico del 1000% o più se non con la volontà di certe ditte specializzate in prodotti per bonsai di approfittarsi della dabbenaggine degli italiani. Insomma, alla fine, un paio di chili di akadama a 10 euro sono stato costretto a comprarli ma giuro che la prossima volta, a costo di pagare l'extra previsto per il superamento dei limiti di peso del bagaglio da stiva, me ne ritorno con un sacchetto di akadama in valigia. O provo a utilizzare il tufo delle crete senesi.

giovedì 12 febbraio 2015

Nuova fioritura

Al rientro della lunga gita gipponese dei cui risvolti orchidofili racconterò presto, ho trovato una piacevole sorpresa. Un'altra fioritura di una pianta derivata da seme. Questo dev'essere proprio l'anno giusto.
Anche di questa ho perso la classificazione ma il colore dei fiori ci da' sicuramente un solido e inaspettato indizio. Si tratta quasi sicuramente di una phalaenopsis 4, l'ultima in ordine temporale ad esser stata seminata. Andandomi a rivedere un po' di post vecchi constato che, ammesso sia veramente lei, la semina della phalaenopsis 4 è avvenuta a settembre del 2011, il che mi metterebbe finalmente in linea con quelle che sono le medie per arrivare alla maturazione della pianta partendo dalla riproduzione sessuata, cioé circa 3-4 anni.
La pianta madre di phalaenopsis 1 ha fiori candidi piuttosto grandi, come effettivamente la pianta che sta fiorendo, e non ricordo di altre piante madri con fiori bianchi. Oppure è il risultato delle caratteristiche del polline utilizzato sulla pianta ospite. La piantina era ancora relativamente piccola, infatti mi sono stupito quando ho notato che aveva emesso uno stelo floreale, a riprova del fatto che alla fine è effettivamente la luce il fattore determinante.
La delusione invece deriva dalla poca divergenza tra pianta madre e figlia. Da qualche parte avevo letto della grande variabilità genetica delle phalaenopsis, dovuta anche al gran numero di incroci che vengono effettuati prima di arrivare all'ibrido commerciale, il cui patrimonio genetico si accumula nel DNA finale pronto a riemergere alla prima occasione. E invece nelle prime due fioriture ho avuto praticamente dei cloni delle piante d'origine, tanto che per il momento non sto procedendo ad alcuna nuova impollinazione, nella speranza di avere presto del materiale genetico un po' più originale da utilizzare. La prossima fioritura in programma infatti sarà una novità assoluta, almeno per me, una phalaenopsis acquistata ancora in fiasca alla fiera delle orchidee di Bologna a primavera 2012, incrocio tra una "red ink" e una "fasciata".